venerdì 9 marzo 2012

Noi il pizzo non lo paghiamo: è una questione di dignità.


di Claudio Metallo
 
Il nuovo documentario che sto finendo di montare, realizzato insieme a Miko Meloni e Nicola Grignani, s'intitola 'Un Pagamu - la tassa sulla paura. E' ambientato a Lamezia Terme, terza città della Calabria, con l'aereoporto più grande della regione e che, nonostante  gli sforzi dell'amministrazione retta da un sindaco di SEL, non è riuscita ancora a liberarsi del C.I.E., ex CPT.
Iniziamo le riprese nel centro storico di Nicastro, nei vicoli, ma anche su Corso Numistrano ed in piazza San Giovanni. Proprio nella piazza incontriamo Cecè, un ristoratore - militante che ha vissuto dieci anni a Bologna e poi ha deciso di ritornare a Lamezia perché: "Volevo fare qualcosa di mio ed a Bologna c'erano già tante cose belle.".

Cecè gestisce, con la sua compagna, un circolo Arci con cucina (Rua Sao Joao) e fino a poco tempo fa anche la bottega del commercio equo e solidale che, però, è stato costretto a chiudere perché purtroppo l'idea non ha attecchito.

Ci dice che è difficile portare avanti alcune attività in questo territorio, ma è ottimista: da quando è tornato da Bologna ha visto che ci sono stati dei miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda la lotta alle 'ndrine locali, cioè i Cerra-Torcasio e gli Iannazzo-Giampà, che sono in guerra da circa dieci anni, e si sono lasciati dietro circa 38 morti.
Nonostante tutto, Cecè ha notato una crescita nella città anche grazie al tentativo di alcune associazioni o singoli individui di porsi obiettivi comuni, di fare rete, di condividere esperienze ed aiutarsi reciprocamente. Questo nuovo impulso, ha dato forza propulsiva al cambiamento della città, nonostante i protagonismi e le oggettive difficoltà sociali e culturali.

Un esempio di buon associazionismo lametino è l'associazione antiracket della città (ALA), nata nel 2003. Il presidente, Armando Caputo, ci chiarisce subito che hanno accettato di darci una mano a realizzare il documentario, perché hanno capito che si trattava di dipingere un ritratto positivo della lotta alla 'ndrangheta lametina. Ci dice che non bisogna nascondere le cose brutte, i problemi, ma spiega: "Un imprenditore che il giorno prima voleva denunciare, vede la sera in televisione un servizio fatto benissimo, per carità, ma dove si dice che la 'ndragheta ha tutte le armi che vuole, soldi a palate e che controlla la politica. L'imprenditore, il giorno dopo non denuncia più!".  Anche Armando Caputo, pone l'accento sulla questione culturale. Ci spiega che c'è chi ha convenienza a pagare il pizzo ed aggiunge che per lui, è un nemico chiunque faccia affari con gli 'ndranghetisti.

Tra gli intervistati c'è chi arriva a dire che la cultura mafiosa pervade la nostra società e la fa "marcire". Ci vorrà tempo per cambiare le cose. Non si scorge nei loro occhi la sensazione di essere delle mosche bianche, ma anzi c'è la dignità di chi ha reagito e di chi ha dimostrato che si può combattere la 'ndrangheta anche senza armi. Il fatto che comunque in seguito ad alcune denunce non ci sia stata una reazione a catena in città, come successe a Palermo, lascia un po' perplessi tutti, ma non scoraggiati. Alla domanda : " Dopo di lei, altri colleghi l'hanno seguita?", rivolta ad alcuni commercianti che erano riusciti a liberarsi dagli estortori, la risposta è sempre no. Alcuni quasi ridendo dicono che, però hanno ricevuto telefonate ed attestati di stima.
In realtà, girando questo documentario, mi sono reso conto che non sono pochi i commercianti che hanno deciso di non pagare. E' vero che non c'è stata un'ondata di gente che ha denunciato gli estortori e i loro complici, dopo le prime collaborazioni, ma è pur vero che si è passati da una situazione in cui, i primi membri dell'antiracket si riunivano, quasi in segreto ed in alcuni casi estremi all'insaputa di una parte dei soci, alla possibilità di lavorare alla luce del sole, invertendo in parte una situazione che costringeva 'i buoni' alla semiclandestinità, mentre 'i cattivi' potevano tranquillamente ritrovarsi in un bar o in un ristorante.

Trovo fondamentale che ci siano associazioni che riescano a non far sentire soli imprenditori o negozianti che denunciano i propri strozzini. L'impressione è che a Lamezia, la 'ndrangheta sia appunto una questione culturale più che di affiliati e di risorse economiche. Il problema, insomma, è di ordine sociale, culturale e politico. Bisogna essere radicali nella vita di tutti i giorni per evitare contaminazioni con un modo di fare che è diventato prassi. Inevitabilmente, in un territorio come il nostro, un atteggiamento del genere può complicare la vita anche per avere semplicemente una licenza o farsi delle analisi mediche, però se esiste una cultura mafiosa deve esistere una cultura contrapposta, una controcultura civile che porti avanti una rivoluzione culturale, appunto. E' scontato, ma vero, che la lotta alle mafie condotta dal punto di vista militare elimina la monovalanza, ma non colpisce quella che una volta si chiamava la zona grigia e che ormai si è fatta Stato ed impresa.

Testimoni.

Riusciamo ad incontrare Rocco Mangiardi. Ci riceve nel suo negozio di autoforniture. Mangiardi è un uomo riservato: "Non sono abituato alle telecamere."  ci dice subito un po' emozionato, ma sorridente. Mangiardi è stato il primo commerciante lametino a puntare il dito contro i suoi taglieggiatori, in un aula di tribunale, quelli della cosca Giampà. Il reggente del clan, Pasquale Giampà, non ha chiesto il rito abbrevviato che, oltre alla riduzione di un terzo della pena, esclude il confronto in aula tra accusato e accusatore. Rocco Mangiardi pensa che Giampà l'abbia fatto di proposito, convinto che lui non l'avrebbe indicato. Invece, non è andata così:"A miei figli ho cercato di passare alcuni valori, se non andavo avanti con questo discorso, rinnegavo quello che gli avevo insegnato. Potevano dirmi: ci hai insegnato una cosa ed adesso che puoi metterla in pratica ti tiri indietro?"
Non pagare è una questione di dignità. Ci dice Francesco Palmieri, un altro commerciante lametino: "Se ti pago, io divento tuo schiavo. Tu entri in casa mia e fai quello che vuoi.". Anche Armando Caputo ci spiega che, pur non avendo mai pagato, quando lui ed i suoi familiari sono entrati in trattativa con gli estortori (per prendere tempo e capire cosa chiedevano) si vergognava della sua debolezza.

Le cifre richieste possono arrivare fino a 1000/1200 euro al mese, una grossa somma di denaro con cui si potrebbe assumere un nuovo dipendente o essere costretti a licenziarne uno. Il meccanismo che s'innesca, una volta che si è entrati nella spirale del pagamento del pizzo, è esattamente quello che viene descritto da Palmieri: "Tu entri in casa mia e fai quello che vuoi.". Spesso, l'estorsione è solo il pretesto per entrare in possesso di un buon negozio o rivenditore, da parte di una cosca. I meccanismi possono essere tanti: l'assunzione di un parente degli 'ndranghetisti o l'ingresso come socio di uno di essi. Quasi sempre si finisce con il perdere la propria attività.

I nostri intervistati, chiedono di poter lavorare dove sono nati, spesso le loro aziende sono state ereditate dai genitori e hanno una conduzione familiare. Il legame è, quindi, ancora più forte. In alcuni casi da una generazione ad un'altra sono cresciuti, aprendo filiali a Catanzaro o in altre città della Calabria. Queste persone assumono in regola i propri lavoratori e nei loro negozi, trovi sempre giovani che lavorano al bancone o in magazzino. Sono imprenditori onesti e ribadiscono sempre la distinzione con gli imprenditori collusi che hanno un altro concezione di rispetto del lavoro. Per ogni problema si può chiamare la 'ndrina di riferimento. Si riesce più facilmente a vincere un appalto al ribasso magari abbattendo i costi di personale e materiali, da gonfiare poi con le 'variabili in corso d'opera', dicitura magica per gli imprenditori edili che può significare triplicare o quadruplicare i guadagni. Si riesce ad avere commesse da altre imprese colluse, invece può succedere anche che se l'imprenditore non paga il pizzo le aziende fornitrici non gli vendono più i prodotti di cui si ha bisogno per lavorare e, magari, anche i singoli clienti si allontanano, perché non si vogliono mischiare. Daniele Godino, della ditta Godino pneumatici, ci racconta che molti imprenditori non capiscono che il fatto di pagare non mette al sicuro da ritorsioni e problemi:"non sei più libero". La famiglia Godino ha subito un gravissimo attentato il 26 ottobre del 2006. Qualcuno ha appiccato il fuoco alle gomme della loro rivendita. Le fiamme si sono propagate per tutta il palazzo (quattro piani) dove abitavano gli altri familiari di Daniele, distruggendo tutto. I Godino si sono rimessi subito al lavoro e hanno ricostruito casa e negozio, anche grazie all'aiuto dei lametini e dell'amministrazione comunale guidata da Gianni Speranza. Il sindaco ci racconta di come la vicenda, nella sua tragicità, dev'essere considerata un esempio per la celerità con cui le istituzioni sono intervenute, ma anche per la forza ed il coraggio dei Godino che già dal giorno dopo l'incendio hanno ricominciato a lavorare con quelle poche gomme scampate alle fiamme. Anche Speranza ci parla di un territorio difficile, ma come gli altri è consapevole che andarsene via equivarrebbe ad una resa, a consegnare anche questo pezzo di Calabria alla 'ndrangheta. Il sindaco non ha avuto neanche il tempo d'insediarsi dopo la prima elezione (2005) che i soliti noti hanno dato alle fiamme il portone d'ingresso del comune. Un avvertimento a lui, ma anche ai consiglieri eletti, visto che Speranza, al suo primo mandato, non aveva la maggioranza in consiglio comunale.

Perché rimanere in un territorio così complicato.

Ogni intervistato ha dato una risposta diversa, ma ugualmente interessante, alla domanda: "Perché hai deciso di restare?".
Cecé ha risposto semplicemente che pensa di avere una certa sensibilità e che le cose storte le avrebbe viste ovunque ed avrebbe cercato di cambiarle e quindi: "perché non farlo in Calabria?".
Anche il legame con il territorio, con le proprie radici è determinate per la scelta di restare.
Daniele Godino si mette a ridere, quando gli viene posta questa domanda ed aggiunge: "Non c'è mai balenato per la testa di andarcene. Perché bisogna darla vinta a questa gente? Che senso ha? Scappi tu, ma il fenomeno rimane."
C'è invece chi ha risposto di avere dei dipendenti e di non essere intenzionato a lasciarli senza stipendio, in una regione dove anche lavorare è un lusso. In molti ci hanno raccontato di voler far studiare i propri figli, magari in altre regioni, ma di sperare che tornino per dare il loro contributo a cambiare questa terra. In Calabria, anche questo sembra rivoluzionario. E' sorprendente come la parola 'delegare' non venga mai pronunciate in nessuna della sua forme. Non solo non si accetta la delega nei confronti del politico, ma non si vuole delegare neanche ai loro figli il piacere di cercare di riprendersi, dopo la loro vita, anche la loro terra: bisogna cambiare insieme.

Non pagare il pizzo aiuta a crescere.

Sembra un assunto semplice: gli imprenditori crescono, guadagnano più soldi, assumono, creano ricchezza per loro e, si spera, per gli altri. Dove c'è il controllo della criminalità organizzata, alcuni imprenditori decidono di non far crescere la propria azienda, perché pensano che se sono piccoli e restano piccoli, non avranno problemi e nessuno verrà a chiedere loro di sborsare una cifra mensile per non subire violenze. La lotta alle mafie dovrebbe essere il primo obiettivo degli irriducibili del libero mercato e della concorrenza, come ad esempio la Confindustria che, al di là delle belle parole, continua a latitare. D'altronde sono i grandi imprese ad alimentare e stringere alleanze con le mafie e spesso a cercare un contatto sul territorio nel momento in cui si avvia un appalto o una filiale. Nella mia ingenuità, mi sorprese molto parlare nel 2006 con Lorenzo Diana, ex senatore campano dei D.S., e sentirmi raccontare come, la commissione antimafia (di cui, all'epoca, faceva parte) avesse scoperto che per gli appalti del TAV in Campania, Impregilo e le sue controllate andavano a cercare i reggenti mafiosi di zona per mettersi d'accordo su forniture, subappalti, movimento terra e per non avere problemi con operai sindacalizzati. Dire di no al pizzo è un modo per aiutare l'economia della Calabria ed al controllo capillare del territorio della 'ndrangheta, al suo 'istituzionalizzarsi' e legittimarsi attraverso una tassa.
Farebbero meno paura.

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