lunedì 28 settembre 2015

'Il derby del bambino morto' o di come lo spettacolo non deve andare sempre avanti. Una chiacchierata con Claudio Dionesalvi.

'Il derby del bambino morto' (Edizioni Alegre, 2014) di Valerio Marchi è il libro che racconta l'incredibile giornata del derby dell'Olimpico tra Roma e Lazio del 21 marzo del 2004. Gli scontri tra forze dell'ordine e ultras prima della partita si susseguono in maniera sempre più violenta. In mezzo alle cariche si ritrovano anche molti tifosi che non fanno parte dei gruppi che popolano le curve di Roma e Lazio.

Chi gestisce l'ordine pubblico per quella partita decide che si possono sparare lacrimogeni contenenti il famigerato gas CS contro ragazze e ragazzi, donne e uomini, bambini e bambine. Il gas CS era in uso anche durante le giornate del G8 di Genova del 2001, viene considerato un'arma da guerra ed è vietato dalla Convenzione delle Armi Chimiche del 1993. Sempre in quella giornata gli sbirri cercano di caricare i tifosi entrando di forza nella Curva che ospita i romanisti. Il clima è surreale e viene perfettamente descritto dalla ricostruzione che Valerio Marchi realizza utilizzando brani delle telefonate, dei messaggi e delle mail con cui i tifosi presenti allo stadio quel 21 marzo inondano siti, radio, forum e televisioni locali per denunciare la brutalità della polizia. In questo contesto di cariche e controcariche, feriti e intossicati, la notizia di un bambino ucciso da una camionetta della polizia diventa una notizia plausibile, e tra gli ultras e gran parte dello stadio olimpico (ma non per le forze dell'ordine e i media mainstream, cioè Sky che trasmette la partita in diretta) si fa strada l'idea che quel derby non si debba giocare di fronte a una tale tragedia. E' questo il presupposto che ne 'Il derby del bambino morto' prende forma e si dipana attraverso l'inchiesta dell'autore che ci fornisce uno spaccato dei rapporti tra 'sport, culture giovanili, opposizione sociale e legislazione repressiva', come si può leggere sul sito di Edizioni Alegre (http://ilmegafonoquotidiano.it/libri/il-derby-del-bambino-morto). Il libro contiene anche un interessante capitolo iniziale in cui si traccia una breve storia dei derby capitolini, che ci fa scoprire come le tensioni tra tifoserie non siano un fenomeno recente.
Il volume esce nella collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1 (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=19281) e oltre alla prefazione di Wu Ming 5, contiene un  aggiornamento di Claudio Dionesalvi tra i fondatori della Nuova Guardia ’86 Ultrà Cosenza e del C.S.A. Gramna, direttore di Tam Tam e Segnali di Fumo, scrittore e giornalista. Ci siamo fatti una chiacchierata sul libro di Valerio Marchi, ma anche sugli ultras, il rapporto tra calcio e televisioni, sulla repressione e sull'idea etica che forse lo spettacolo non deve andare avanti per forza.

1) Ci fai un breve ritratto di Valerio Marchi?

Uno studioso di strada, figlio della strada. Osservava la realtà sociale con sensibilità e capacità critica. Non si limitava a “leggere” i fenomeni. Piuttosto, li acquisiva. Come se al posto della vista avesse uno scanner. Aveva una visione prospettica. Per me un grande amico, una persona speciale nella sua naturalità.

2)    Che libro è ‘Il derby del bambino morto’ e come mai tu hai curato la nuova edizione con un aggiornamento, perché se ne sentiva la necessità?

È un libro interessante per la sua capacità di cogliere le trasformazioni, prevederle, ricondurle ad un quadro analitico che fuoriesce dalla dimensione calcistica e coinvolge l’interezza della società. Un esempio insuperabile di “pallonità”, cioè la tendenza a trasmigrare dal football alla vita reale, trasfigurandolo, assaporandone gli intrecci, cogliendo il potenziale narrativo e mitopoietico dell’umanità complessa che intorno all’industria del pallone da sempre si raduna. Leggere questo libro aiuta a capire meglio l’Italia contemporanea. E non è un testo che si lascia schematizzare, irretire nelle asfittiche tipologie codificate della scrittura. È un caso emblematico di “oggetto narrativo non identificato”. Non a caso è stato ripubblicato da Alegre nella collana del Quinto Tipo, diretta da WuMing1. È stato lui a chiedermi di curare l’aggiornamento di questo lavoro. Io ho accolto l’invito con immenso piacere. 

3)    Ricordo bene quel derby di Roma perché con il collettivo di cui facevo parte all’epoca decidemmo di trasmettere illegalmente la partita con la nostra telestreet Teleimmagini. Rileggendo la ricostruzione di Marchi mi è ritornato alla mente il fatto che non si parlasse per nulla dei gravissimi scontri fuori dallo stadio come quelli documentati dall’autore. La situazione era così drammatica che la celere cercò di entrare in Curva Sud. Rispetto a tutto questo, cosa pensi del rapporto tra media e calcio e della retorica delle famiglie che devono per forza andare allo stadio?

Tutte le volte che sento questo ritornello delle famiglie allo stadio, un brivido mi attraversa la schiena. Impossibile non ripensare alla propaganda fascista in preparazione delle spedizioni militari dell’Italia colonialista. Anche all’epoca, alla vigilia dell’aggressione all’Etiopia, per motivi strategici ci fu bisogno di intruppare le famiglie e posizionarle sulle gradinate dei campi di calcio. Oggi è chiaro che non è un’esigenza militare ad attivare questo tipo di propaganda. Semplicemente, l’industria del pallone televisivo, all’interno degli stadi di calcio, vuole sostituire la vecchia scenografia movimentata da striscioni e fumogeni, con una cornice statica e rasserenante, da libro Cuore, quindi più facilmente commercializzabile. A me importa poco. Se devo andare con mia figlia in uno stadio, il posto più sicuro e divertente rimane il settore occupato da ciò che resta degli ultrà.

4)    Perché è giusto interrompere lo spettacolo calcistico per la morte di un tifoso o di un semplice supporter?

Perché le partite di calcio non sono un semplice evento sportivo, bensì, con buona pace del Gran Maestro di Firenze e del suo cimiteriale ministro dell’Interno, rappresentano la celebrazione collettiva della storia e del presente di una vasta comunità umana che intorno ai propri colori sociali costruisce una ritualità spontanea e condivisa. Come accadeva nell’antica Grecia con la tragedia che era tutto tranne che un semplice “spettacolo”. Qualsiasi rituale collettivo dovrebbe interrompersi in presenza di un lutto o di una guerra! Ma è chiaro che ridotto com’è a vacuo show commerciale, il football è costretto ad andare avanti, costi quel che costi, in qualsiasi situazione. In fondo è quasi sempre andata così. Basti pensare all’Heysel. Anche a Roma, nel derby Lazio-Roma del 2004, dentro e fuori l’Olimpico era in corso una “guerra”, a prescindere se l’uccisione di un bambino fosse un fatto reale o immaginario. Ancora una volta Valerio Marchi è stato bravissimo: in questo libro spiega con chiarezza perché in un paese anormale come l’Italia, retto da leggi speciali, attentati contro innocenti e da uno stato di polizia, la gente non esita un solo istante a credere che la polizia possa ammazzare una persona innocente.

5)    Tu sei stato un ultrà del Cosenza, ci spieghi il concetto di territorio per gli ultrà, che ritorna più volte nel libro.

È un principio costitutivo. Senza territorio non esisterebbero gli ultrà. Le curve sono, anzi erano, zone liberate dal controllo poliziesco cui siamo sottoposti sin dalla nascita. In esse riproducevamo relazioni, amicizie, legami e conflitti. Naturale proteggere questo ambiente da incursioni nemiche. Ed è vomitevole la retorica degli intellettuali del web, figli della pocket reality e dei plastici di Bruno Vespa, che strillano contro i rischi xenofobi dell’affermazione di un’identità. Qualsiasi gruppo umano è tale in quanto erige intorno a sé un confine invisibile col resto della società. Non esisterebbero parrocchie, associazioni, compagnie teatrali, collettivi, classi scolastiche; non esisterebbe niente se alla base di tutto non ci fossero le due fondamentali parole: “Noi siamo”. È chiaro che questo confine dovrebbe essere elastico, poroso, aperto a chi vuole varcarlo in modo pacifico, valicabile, duttile. Ma in assenza di esso, l’alternativa è la disgregazione, la solitudine, l’individualismo eccentrico. 

6)    Nella prefazione di Wu Ming 5, lui racconta di come a Genova al G8 del 2001 quelli che riuscivano a muoversi meglio in mezzo alle cariche e alla violenza della polizia erano proprio gli ultrà. Questione di abitudine?

Certo! Ne abbiamo viste di tutti i colori, negli anni novanta, dentro e fuori gli stadi di calcio. Ci hanno sparato addosso, gasato, recluso. A Genova lo Stato ha solo messo in pratica un protocollo ben collaudato. Al di là del prevedibile iniziale sgomento di fronte a un’ondata di violenza legalizzata di quella portata, i più  sorpresi da cotanta brutalità statale non fummo né noi curvaioli né lo furono i militanti dei movimenti rivoluzionari del passato. In fondo avevamo tutti una certa dimestichezza con gli interventi repressivi, a carattere militare, attuati diverse volte dai poteri costituiti nella storia dell’Italia repubblicana.
Mi viene da ridere e da piangere quando tanti ultrà di oggi dicono e scrivono che la repressione negli stadi sarebbe iniziata con l’introduzione della tessera del tifoso o col biglietto nominativo. Solo chi non ha vissuto in curva il decennio precedente il 2001, può affermare una simile cavolata. Di conseguenza, anche la resistenza degli ultrà al tentativo di annientamento, non è un fatto recente. Risale ad almeno due decenni fa.

7)    Sappiamo che il calcio è quasi solo business e i calciatori sono gli attori di uno spettacolo che ormai si ripete quasi tutti i giorni della settimana. Le curve sono una massa critica all’interno di questo sistema oppure lo sono solo state?

Ci sono gruppi ultrà che ancora resistono, ma rimangono in pochi. Sopravvivono soprattutto quelli che investono del tempo in iniziative benefit, sport popolare, antirazzismo e difesa dei rispettivi territori dall’assalto di multinazionali, discariche e fabbriche di morte. Cioè, quelli “impegnati nel sociale”. Che poi è sempre e comunque un fatto politico, nel senso antico del termine.


8) Qual è il rapporto tra ultrà, calciatori e società? Pensi che ci siano delle differenze tra le serie minori e la A o la B?

Nella maggior parte dei casi ormai prevale l’indifferenza. Raramente si instaurano relazioni di rispetto e armonia che esistevano in passato. Il rapporto col mondo del calcio, nella maggior parte dei casi, è di subordinazione o di giusto disprezzo. Oggi non esistono più differenze tra categorie superiori e inferiori. Le peggiori schifezze, a volte, si verificano proprio nel dilettantismo.




di Claudio Metallo

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